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http://www.youtube.com/watch?v=1po4k1BfXB41. Anni 1955-70
Gli anni del miracolo economico sono anni fondamentali per il design italiano.
Nel quadro della politica economica di stampo liberista del periodo post bellico, le imprese artigianali della Brianza, specializzate nella lavorazione del legno, cominciano a prestare attenzione alle innovazioni tecnologiche e alle opportunità di ampliamento del mercato. Iniziano a intendere l’importanza del design come sinonimo di qualità e successo del prodotto. Emulando ciò che stava avvenendo in Danimarca, con la prima tradizione colta del design dell’arredo, e nella stessa Brianza nell’azienda di Cesare Cassina, che collaborava con Giò Ponti{{1}}, gli imprenditori cominciano a richiedere la collaborazione dei designer.
I designer di allora, molti dei quali architetti appena sfiorati dal boom edilizio di cui erano protagonisti gli speculatori, trovano negli imprenditori della Brianza interlocutori vivaci, disponibili alla ricerca e all’innovazione (Corretti, 1996). Il designer avanza all’imprenditore le sue proposte di nuovi prodotti. L’imprenditore cerca di raccogliere il massimo dalla creatività: non vi sono uffici marketing che definiscono a priori i brief di progetto e il designer è una sorta di intellettuale della produzione che sa interpretare i cambiamenti degli stili di vita ed esprimerli con un linguaggio moderno.
Tra l’architetto-designer e l’imprenditore shumpeteriano s’instaura un rapporto diretto in uno scambio di rischi e conoscenze. La tradizione artigianale delle aziende è la base per lo sviluppo di nuove produzioni, ma sono determinanti le innovazioni tecniche.
Da parte dell’industria non ci sono esitazioni nel mettere a disposizione dei designer i mezzi industriali necessari alla realizzazione di un buon progetto. “Allora i produttori collaboravano […] con il designer per cercare nuovi materiali, nuove possibilità di produzione […]. Non era […] importante che il designer usasse materiali utilizzati dell’azienda […] L’interesse maggiore era incentrato sulla modernità degli arredi, sull’innovazione di nuove forme allora inconsuete.” (Noorda, 2002, p. 12). I materiali innovativi come la gomma piuma e il polipropilene, rispettivamente prodotti da Pirelli e Montedison, stimolano l’innovazione dei linguaggi formali e permettono di passare da sistemi artigianali di produzione a processi industriali in serie.
Sulla bontà delle proprie risorse e proposte, tra l’azienda e il designer si stipula un accordo di partnership per uno specifico progetto che prevede la corresponsione di royalty{{2}} da retribuire al progettista in relazione al numero di pezzi venduti e al loro prezzo al venditore. La prospettiva della produzione industriale rende vantaggioso per i designer questo tipo di retribuzione.
Le alleanze che si creano in questi anni, come quelle Cassina-Ponti, Arflex-Zanuso, Albini-Poggi, Gavina-Scarpa, Flos-Fratelli Castiglioni, sono alcuni dei casi destinati a caratterizzare l’Italian Style degli anni successivi.
La singolare figura del designer italiano prende forma: è un free-lance poco organicamente collegato con le strutture aziendali{{3}}; il rapporto che istaura con l’industria è di autonomia reciproca (Branzi, 1999).
Questo progettista, intellettuale della produzione, opera privilegiando gli spostamenti di settore e cerca di aumentare la propria notorietà con i media, ma è sulla qualità dei progetti che si misura la sua notorietà.
2. Anni ‘70
L’industria italiana inizia a promuovere se stessa e il design italiano a livello internazionale, contribuendo a comunicare un’idea di “stile italiano” con prodotti dedicati a mercati alti di nicchia, in opposizione alla convenzionale produzione di massa. Nel 1972, “Italy: The New Domestic Landscape”, la grande esposizione al Moma di New York, suggella il successo di critica del giovane passato del design italiano e apre una nuova fase sperimentale, caratterizzata da utopie e visioni del futuro. Con il ’68 e le speranze politiche di rinnovamento della società assimilate alla progettazione, il designer diviene un interlocutore, culturalmente critico, per scelte strategiche.
Negli stessi anni, Bob Noorda introduce il concetto di immagine coordinata che veicola la comunicazione aziendale. Il connubio di qualità dei prodotti e immagine coordinata contribuisce alla riconoscibilità di molte aziende italiane. Anche gli allestimenti degli stand aziendali alle mostre come il Salone del Mobile di Milano (nuovo strumento di marketing e comunicazione), aprono nuove possibilità di rapporto design-industria{{4}}.
Grazie al contributo di design, nonostante la congiuntura sfavorevole del sistema economico mondiale, molti prodotti italiani hanno uno straordinario successo sui mercati europei, americano e giapponese. Alcune aziende raddoppiano il fatturato{{5}}, contro le aspettative dei “primitivi” uffici marketing. Le aziende crescono e cominciano a darsi un’organizzazione più strutturata. Però, la decisione di introdurre un prodotto in catalogo dipende ancora dall’imprenditore, profondo conoscitore del mercato che spesso agisce senza basarsi troppo sulle indagini di mercato o contro le previsioni delle stesse indagini.
In conclusione, negli anni ’70, con la capacità visionaria che lo contraddistingue e ampliate le sue competenze grazie agli strumenti del product, visual ed exhibit, il design assume un approccio strategico capace di orientare i cambiamenti delle aziende verso una cultura incentrata sul cliente e la qualità percepita. Il risultato è che, nonostante la ridotta dimensione aziendale, l’immagine del design italiano si afferma sui mass media e nell’immaginario collettivo anche a livello internazionale. I progettisti sono ancora tutti italiani e i prodotti realizzati interamente in Italia. Il numero dei professionisti del design a Milano non supera la ventina, e altrettanto vale per le aziende che vi collaborano.
3. Anni ’80
E’ il decennio contraddistinto dalla mondializzazione e dal boom della moda italiana.
Dall’estero arriva un nuovo modo di intendere il design e il designer, rappresentato da Philippe Starck. Di lui hanno detto “non più un progettista-intellettuale, come il designer italiano…[ma] un professionista con ambizioni di protagonismo.” (Pasca, 2004). Sull’esempio del fashion system, caratterizzato da un originale rapporto stilista-industria in cui lo stilista è il personaggio dominante, Starck promuove la sua immagine tanto da dominare su quella del prodotto e dell’azienda. I suoi progetti, prodotti da Alessi, Flos, Kartell, Driade, Cassina e diffusi su scala mondiale diventano i nuovi “oggetti del desiderio”. Starck si configura come un brand, garantendo all’azienda successo di vendite. È il fenomeno delle design firm.
Comincia a delinearsi un nuovo rapporto tra design e industria: l’Art Direction. Alessandro Mendini diviene consulente di Alessi e lancia il progetto Tea & Coffee Piazza, un’operazione di ricerca di nuovi designer. Ne deriva il nuovo marchio Officina Alessi per la messa in produzione di serie limitate di prodotti come gli 11 servizi da tè e caffè (realizzati ciascuno in 99 esemplari) progettati da nomi stranieri già molto noti nell’ambito dell’architettura: A. Rossi, M. Graves, H. Hollein, R. Meier, R. Venturi, O. Tusquets, K. Yamashita e altri. L’azienda italiana del mobile si apre ai progettisti non italiani, e replica per certi versi il modello Olivetti-Sottsass{{6}}. L’art director collabora con l’azienda con continuità, o limitatamente a una collezione, per definire, confrontandosi con la direzione e l’ufficio marketing, le strategie delle nuove linee di produzione e i designer che disegneranno i prodotti. Inoltre Alessi, per agevolare lo sviluppo dei prodotti, crea la struttura interna Design Assistance{{7}}, ufficio che si adopera per risolvere i problemi di mediazione tra i mondi lontani del design e dell’ingegneria dei tecnici aziendali .
Dopo Alessi, anche Zanotta, con l’art direction di A. Guerriero e A. Mendini, realizza una strategia di pezzi a numero limitato con Edizioni. Le collezioni si collocano in una zona di confine tra arte e design con una forte componente di fatto a mano. Alcuni oggetti, riproponendo tecniche desuete o nuove e sperimentali, sono destinati a valorizzare emotivamente l’ambiente domestico. Il numero limitato ne accresce il valore nel tempo{{8}}.
Queste strategie usufruiscono dell’esternalizzazione delle produzioni nell’ambito del sistema dei distretti industriali, fatto di piccolissime imprese, dove è possibile reperire competenze artigianali complementari una rispetto all’altra. Molte aziende ricorrono all’esternalizzazione delle produzioni per ridurre i costi diretti e indiretti del lavoro e per adattare il sistema produttivo a un contesto tecnologico e di mercato che cambia molto velocemente.
Inoltre, importanti cambiamenti tecnologici, introdotti già negli anni ’70, proiettano le aziende verso una diversa qualità dei beni di consumo: la personalizzazione. Con l’introduzione delle tecnologie di lavorazione a controllo numerico l’industria adotta il modello di produzione in “serie variata” per l’assemblaggio di modelli differenti (per prestazioni, finiture, materiali, forme e dimensioni) a partire da un unico prototipo di base. Con la serie variata e un programma di design basato sulla varietà del catalogo e la qualità del servizio, le aziende reagiscono alla trasformazione delle preferenze dei consumatori, divenuti ostili alla rigidità e all’omologazione della produzione standardizzata. “L’oggetto diviene solo una parte del tutto, e gli strumenti tecnici usati dalla ‘mente editoriale’ per scrivere il suo romanzo, la sua avventura visiva, sono la grafica, gli stampati, i sistemi di comunicazione, gli allestimenti, gli eventi, i messaggi, la pubblicità e altro. Più che di singoli strumenti si tratta di un’orchestrazione.” (Mendini, 2007, p. 8).
4. anni ’90
Sono gli anni della globalizzazione. Le aziende italiane sono divenute abili ed efficaci nell’acquisire un’identità con cui essere riconoscibili e proporsi come riferimento a livello internazionale (Pasca, 2001). Nel rifocalizzare la brand identity sono centrali le competenze di design, anche se al contempo le imprese tendono a ridurre i rischi e delegano gran parte delle decisioni al direttore marketing.
Nei primi anni ’90, anche nelle università statali italiane nascono i corsi in disegno industriale che si aggiungono ai corsi nelle scuole private. Nel frattempo Milano è divenuto il centro di un network di giovani generazioni di designer di molti paesi. In occasione dei Saloni del Mobile i giovani designer, in particolare quelli provenienti dal Nord Europa dove si sono formati in scuole di design e arte, giungono a Milano con i loro prototipi, sperando di trovare un produttore, che possa lanciare la loro carriera, come ha fatto Giulio Cappellini con Ron Arad, Jasper Morrison, Marc Newson e i fratelli Bouroullec.
Gli imprenditori divengono rapidi nell’individuare i progetti di qualità nell’abbondante repertorio delle autoproduzioni dei giovani designer. Ma sembra esservi un rovescio della medaglia di questo fenomeno: le aziende delegano parte della ricerca ai designer che nel frattempo sono diventi sempre più competenti grazie alla nuova formazione scolastica dedicata. Con la produzione esternalizzata nei distretti o delocalizzata all’estero, le aziende si trasformano in editori e dedicano le proprie energie al talent scouting, all’organizzazione di strutture commerciali sempre più internazionali, alla messa a punto di strategie di brand. Nelle strategie rientra l’utilizzo di nomi noti e di fama internazionale accanto ai giovani talenti e anche la creazione di musei d’impresa e le continue attività tra il promozionale e il culturale come mostre ed esposizioni.
Sono questi gli anni in cui si consolida il modello dell’innovazione a getto continuo sul mercato, e la richiesta di design continua a crescere.
Comincia a manifestarsi anche una nuova richiesta di design (secondo una tendenza che si consoliderà nel decennio successivo) da parte di aziende emergenti, che operano in settori e fasce della produzione industriale precedentemente lontani dal design. Queste aziende cercano vantaggio competitivo dal design, ma non sempre riescono a investire con continuità, adeguatezza e ingenti risultati.
5. anni 2000 e l’attualità
Nonostante il manifestarsi della recessione, la produzione manifatturiera italiana dimostra una buona tenuta nei settori consolidati, quelli in cui il prodotto si caratterizza per alte qualità di fattura, ricercatezza di soluzioni morfologiche e dove il miglioramento delle performance competitive è affidato alla riorganizzazione delle modalità di distribuzione e servizio al cliente. Ma il crollo del mercato europeo pone in difficoltà le aziende, senza esclusione di settori e livelli di prodotto, che per crescere e innovare devono dotarsi di mezzi finanziari in grado di reggere gli investimenti. I venture capital rappresentano una risorsa a cui attingere, ma non sempre sono organici all’azienda designer centred{{9}}.
Molti imprenditori, anche se con parecchie difficoltà, orientano le loro energie in un’impegnativa fase di aggiornamento delle strutture commerciali, delle logiche competitive{{10}} e di riorganizzazione delle attività sulla base della suddivisione tra strategico e non strategico. Il design è ancora incluso nelle attività strategiche non soggette a delocalizzazione, anche se già da molto tempo i designer che lavorano con aziende italiane design centred provengono da varie parti del mondo.
Proprio mentre la crisi costringe aziende e studi a tagliare i budget, il numero sempre più consistente di laureati in design che non riescono a trovare un’adeguata occupazione{{11}}, rende il quadro del rapporto tra design-industria controverso.
La formazione universitaria dedicata e la sua evoluzione in ambito europeo, ha provocato interessanti “mutazioni della tradizionale figura del designer, del suo ruolo e dei contesti in cui opera […] estendendo l’intervento lungo la catena che porta alla definizione degli artefatti e alla costruzione del loro valore; catena che vede figure sempre più specializzate.” (Penati, 2010, p.36). Si va dalle specializzazioni preconfezionate dei curricula scolastici (solitamente corrispondenti a product, visual, interior, fashion, nautical design, ecc. senza contare i master) alle specializzazioni per settori specifici della produzione industriale (furniture, exhibit, packaging, illuminotecnico, ceramico, ecc.) fino a specializzazioni che corrispondono alle diverse fasi del percorso progettuale (ricerca metaprogettuale, di tendenze, strategie di brand, concept oppure sviluppo dettagliato del progetto e disegno parametrico, ecc). Con la formazione dedicata le competenze di comunicazione sono divenute essenziali per tutte le specializzazioni ed è avvenuto anche un significativo spostamento della pratica del design dall’innovazione di prodotto a quella di processo. È anche cambiata la consapevolezza del ruolo del designer in quanto operatore culturale e socio-economico su scala mondiale (Guellerim, 2010).
Altre mutazioni derivano dall’ambiente tecnologico in cui i giovani operano: le tecnologie delle comunicazioni hanno modificato il modo di operare aprendo al modello open-source, che manifesta anche una propensione alla condivisione e allo scambio, potenzialmente capace di stimolare un atteggiamento critico e pro-attivo; le tecnologie di produzione digitale, annullando le differenze tra processi seriali e dimensione artigianale, tendono a scardinare il rapporto design-produzione nella sua forma consolidata. Le potenzialità delle tecnologie odierne dischiudono nuove modalità della filiera progettuale-produttiva e di consumo.
In questo quadro di cambiamenti ancora in progress, si assiste alla “creatività fluida e diffusa” che sperimenta nuove possibilità di occupazione, di cui fanno parte fenomeni quali:
– la Design-Art, un ambito di progettazione e auto-produzione di One Off, senza limiti di tecnologie applicate (tra innovative o artigianali), spesso commissionati ai designer e venduti ad altissimo prezzo dalle gallerie d’arte;
– lo sviluppo di centri e network di sperimentazione, come il FabLab{{12}} Torino, che si focalizzano sulle potenzialità del desktop-manufacturing, come l’uso delle stampanti 3D, per la realizzazione di prototipi, pezzi unici e personalizzati e ipotizzano una ridefinizione della catena dei processi progettuali, produttivi e distributivi;
– le varie forme di auto-organizzazione di più fasi del processo di design-produzione e oltre, compresa l’autoproduzione di piccole serie di prodotti, compiute dallo stesso designer o ricorrendo alla prestazione/collaborazione di artigiani. Queste forme di auto-organizzazione costituiscono un nuovo approccio alla professione, spesso nell’attesa della “grande occasione”, ma non solo.
Questi fenomeni emergenti manifestano la propensione dei designer alla sperimentazione dei processi tecnologico-produttivi e alla gestione delle fasi del processo progettuale-produttivo-promozionale. Vi rientrano le auto-produzioni esposte alla mostra “Milano si autoproduce” curata da Alessandro Mendini durante i Saloni del Mobile di Milano 2012 e anche il progetto “InternoItaliano”, una collezione di arredi e complementi disegnati da Giulio Iacchetti e prodotti grazie a una rete di imprese artigiane; fino alle personal-factory che propongono processi autonomi di produzione, ma solo apparentemente alternative al sistema produttivo consolidato.
Riguardo alla figura del designer emergente, le sue caratteristiche salienti sono:
– la capacità di lavorare in gruppi omogenei e non, e in network, identificandosi in essi piuttosto che in un singolo soggetto, così superando il fenomeno della design-firm;
– un set di competenze flessibili che si conformano alle esigenze dell’interlocutore: competenze non più circoscritte ai soli aspetti morfologici, funzionali, prestazionali dei prodotti (le classiche competenze progettuali), ma che includono altre abilità e pratiche (dalle nuove forme di marketing, alla progettazione informatica; dalla mediazione sociale all’ingegneria gestionale);
– la volontà di “attuare” piuttosto che attendere la tradizionale committenza, che si esprime in una continua sperimentazione di possibili nuovi modelli che possono stimolare l’attecchimento di nuove strategie per l’industria, le professioni e la società.
References
ALIdesign (2002). Il design è. Intervista a Bob Noorda: il fondatore della corporate Identity in italia. Alidesign 3, 12.
Branzi, A. (1999). Introduzione al design italiano. Una modernità incompleta. Milano, IT: Baldini & Castaldi, p. 107.
Corretti, G. (1996). Introduzione. Il design come cultura civile. In A. Branzi. Il design italiano 1964-1990 (pp. 21-29). Milano IT: Electa.
Guellerim C. (2010). Formazione e design: un New Deal. Disegno Industriale. Industrial Design, 42/43, 20-31.
Mendini A. (2007). Anni Ottanta. L’officina polivalente. In Driade l’arte di abitare, 2012, p. 8.
Pasca V. (2001). Il design italiano: elementi per una storia. In Aa. Vv. 1951-2001 Made in Italy? (pp. 104-117). Milano IT: Skira.
Pasca, V. (2004). Il periodo italiano di Philippe Starck. In Guillume V. (ed.) Scritti su Starck (pp. 43-57), Milano, IT: Postmedia.
Penati, A. (2010). Formazione e design. Disegno Industriale. Industrial Design, 42/43, 32-43.
Peruccio, P. (2004). 7.500 pezzi d’acciaio prodotti ogni giorno. Una macchina da 90 milioni di euro l’anno. Il Giornale dell’Architettura, 18, 43.
[[1]]Gio Ponti è il personaggio chiave di quegli anni, colui che opera su vari fronti per elevare la qualità della produzione italiana di arredi e complementi: dal 1923 al 1930 è direttore artistico di Richard Ginori; nel 1928 fonda la rivista Domus; sostiene le Biennali di Monza, poi Triennali di Milano, il premio Compasso d’oro e l’ADI (Associazione per il Disegno Industriale) dando numerosi impulsi al rinnovamento della produzione italiana del settore. Al Ponti architetto si deve il simbolo della Milano moderna, il grattacielo Pirelli, progettato nel 1956 con Fornaroli, Rosselli e Nervi. Nel 1957 G. Ponti progetta la celeberrima Superleggera per Cassina, a coronamento di un rapporto di collaborazione lungo e fecondo.[[1]]
[[2]]La royalty, applicata in Italia a partire dagli anni ‘30 per i brevetti industriali e a metà dagli anni ‘40 in U.S.A. nel campo del design dalla Knoll, risponde al riconoscimento del diritto d’autore e ha il senso di una responsabilizzazione nell’atto creativo, con tutti i rischi che esso comporta. Tra le aziende che la adottarono ci sono: Gavina con i fratelli Achille e Pier Giacomo Castiglioni per una serie di arredi e Flos con gli stessi Castiglioni per una serie di lampade, tra le quali Arco (1962) (fonte: Fondazione Achille Castiglioni), e nel 1970 per la lampada Parentesi sviluppata da un disegno dell’artista Pio Manzù, prematuramente scomparso in un incidente, sulle cui royalty i Castiglioni davano un contributo alla vedova Manzù. [[2]]
[[3]]É interessante evidenziare la differenza tra il modo di operare del designer negli Stati Uniti d’America e in Italia: “Il progettista americano disegnava l’oggetto fino alla definizione più minuziosa del dettaglio trascurando spesso il valore concettuale che esisteva alle origini della progettazione del prodotto stesso. Il produttore voleva unicamente il progetto finito e risolto nel più piccolo dettaglio; non gli importava null’altro. I designer italiani formulavano, invece, progetti a volte carenti in alcuni aspetti puramente tecnologici di minuziosità dei particolari, ma caricavano i prodotti di aspetti più puramente concettuali…di nuovi contenuti.” (Noorda, 2002, p. 12)[[3]]
[[4]]I Fratelli Castiglioni, pionieri in molti ambiti del design, sono stati tra i primi negli anni ‘60 ad allestire i padiglioni di RAI e Montedison alla Fiera Campionaria di Milano.[[4]]
[[5]]Plia, Castelli 1972; Coronado di A. e T. Scarpa e Sity di Antonio Citterio per B&B; Strip di Cini Boeri per Arflex; Cab di Mario Bellini, Maralunga di Magistretti per Cassina sono alcuni dei best-seller di quegli anni (Branzi, 1999, pp. 258-259).[[5]]
[[6]]Il rapporto di E. Sottsass con Olivetti è un caso molto particolare che ha influenzato enormemente la cultura del design negli anni successivi: E. Sottsass propone ad Olivetti la direzione di uno studio/atelier di design, amministrato dall’azienda, dove i designer internazionali che lui stesso sceglieva come collaboratori potevano condurre ricerche per il design Olivetti per alcuni e limitati periodi. Questa modalità di collaborazione, senza un rapporto fisso di lavoro e continuativo all’interno dell’azienda, assicurava ai designer un’autonomia di pensiero e maggiori opportunità per l’aggiornamento culturale. Sottsass insieme alla direzione, l’ufficio marketing e l’ufficio tecnico discuteva le strategie dell’industria, per definirne un’identità di azienda aperta che offre alla società e alla cultura nuove opportunità di sviluppo (Branzi,1999, pp. 93-94). [[6]]
[[7]]Cfr. P. Peruccio, 7.500 pezzi d’acciaio prodotti ogni giorno. Una macchina da 90 milioni di euro l’anno. Alberto Alessi: con «Hot Bertaa» raggiunta la borderline della «bollitoricità» in Il Giornale dell’Architettura, n. 18, maggio 2004, p. 43.[[7]]
[[8]]La prima collezione limited edition fu Zabro di A. Mendini, a cui seguirono con l’art direction di A. Mendini e A. Guerriero la Nuova Alchimia (A. Mendini con B. Gregori) e gli Animali Domestici di Branzi. Edizioni Zanotta ottenne nel ’91 la Segnalazione d’Onore al Compasso d’Oro, per il suo forte valore culturale.[[8]]
[[9]]Piero Gandini, presidente di Flos, intervenuto al 2007 al Forum: Progetto e Profitto (documentato in Domus 906, 2007, p.93) ha dichiaratato: “…Per aziende che operano come editori, l’unica ricchezza che genera competitività è l’innovazione di prodotto. E l’innovazione si fa considerando merce il prodotto, e non l’azienda in cui si agisce. …Un’azienda … ha bisogno di liquidità e capitali per poter prendere decisioni strategiche in ogni momento… , ma deve anche conservare lo spirito utopico, generoso e un po’ folle, che è alla base della capacità progettuale.” Intanto, con il venture capital vengono creati il fondo Charme e aziende come Skitsch e Discipline, editori di design che usufruiscono dell’autoproduzione dei giovani designer.[[9]]
[[10]]Molte aziende si focalizzano sulla penetrazione in mercati emergenti: Russia, Ucrania, Cina, Turchia, Brasile. Secondo il report di Federlegno Arredo 2012, le richieste di figure e competenze professionali da parte delle imprese orientate ad aggredire i mercati internazionali sono: 1) operatori della creatività diffusa con doti di intermediazione culturale, cioè designer o operatori capaci di riproporre il gusto italiano tenendo conto di interpolazioni che derivano dal gusto del consumatore di realtà geografiche di riferimento (Far East, Paesi Arabi, Paesi dell’Est, Europa e Stati Uniti, etc.), con conoscenza della lingua locale, e in grado di realizzare prodotti adatti ai nuovi mercati, di gestire show room in linea con la cultura delle città di in cui vengono installati servizi di retail o di produzione; 2) manager in grado di gestire tutti gli aspetti commerciali legati alla espansione all’estero delle imprese italiane. Si richiedono figure che alla creatività aggiungono non poche capacità di organizzazione, management, e di interpretazioni delle realtà sociale di riferimento. [[10]]
[[11]]Solo il 60 % circa dei laureati junior dei Politecnici di Milano e Torino a due anni dalla laurea trova un’occupazione, mentre sale a circa l’80% il dato dei design specializzati occupati. In media, uno ogni tre ex studenti delle facoltà di design sceglie la libera professione. Il talento fa la differenza tra successo e sopravvivenza stentata. Ma anche il talento spesso non paga, se si considera che gli introiti variano in funzione del valore della situazione (nome del design e dell’azienda, settore produttivo, tipo di commessa e relazione). Sono molto variabili e arrivano dopo anni sotto forma di royalties sulle vendite dei prodotti. Ma bisogna considerare anche i progetti che non vanno in produzione (almeno il 50% come conferma uno studio della Bocconi), o che vengono prodotti in piccolissime quantità, o servono solo a riempire gli stand delle aziende per dimostrare che l’azienda innova la propria produzione.[[11]]
[[12]]I FabLab, nati da un progetto di Neil Gershenfeld, direttore del Center for Bits and Atoms del MIT, oggi sono 88 tra USA e Europa, ciascuno focalizzato su uno più tecnologie digitali. Assumono forme diverse: alcuni sono centri sperimentali di istituzioni formative, altri veri e propri soggetti imprenditoriali. Tra questi il Fab-Lab di Torino si pone ai designer e alle aziende interessate come soggetto facilitatore per la produzione digitale e per lo sviluppo di innovativi processi di design collaborativo e di gestione dell’intero processo di design-produzione-commercializzazione dei prodotti.[[12]]